------------------ELIMINATO L'IMPOSSIBILE,CIO' CHE RESTA,PER IMPROBABILE CHE SIA,DEVE ESSERE LA VERITA'!
 
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I DIECI COMANDAMENTI

Ultimo Aggiornamento: 15/08/2013 21:34
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04/08/2011 23:10

I DIECI COMANDAMENTI - PRIMA PARTE
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UN TESTO CHE MERITA DI ESSERE CONOSCIUTO A FONDO

PREMESSE

Tutti noi che, in un modo o nell’altro, abbiamo studiato il catechismo cristiano e frequentato da bambini le lezioni di religione nella scuola dell’obbligo, ci siamo prima o poi imbattuti in quelli che comunemente vengono chiamati i Dieci Comandamenti.

Probabilmente una buona parte di noi avrà anche visto il famoso film di Cecil De Mille interpretato da Charlton Heston, splendida performance cinematografica un poco lontana dalla verità storica, ed altrettanto probabilmente si ritiene in grado, se interrogato, di indicare a memoria quelli che ritiene essere i citati comandamenti.

Ma siamo davvero convinti di ciò? Conosciamo davvero i comandamenti o piuttosto conosciamo quelli che ci sono stati insegnati dalla dottrina?

O meglio: quello che ci è stato insegnato al catechismo e fa parte del nostro bagaglio culturale corrisponde al testo biblico o questo è stato modificato? Ed il testo biblico da dove deriva?

Tempo addietro, con alcuni amici come me appassionati di filosofia e del mondo antico, avevamo iniziato a studiare ed a commentare il testo biblico ma nei nostri studi ci scontrammo con persone purtroppo, per loro e per noi, troppo ignoranti per comprendere la profondità di un testo che è sopravvissuto ai millenni e troppo legate alle banalità terrene ed alle cose di tutti i giorni per essere in grado di apprezzare la bellezza di certi argomenti.

Ci rendemmo conto che non si possono dare le perle in pasto ai porci e che siffatte materie debbono essere tenute ben lontane da chi, come direbbe il Giusti, a certe cose “è morto e sotterrato”.

Ma in un sito dedicato agli uomini liberi, dove gli uomini liberi possono dire la loro e scambiare le loro opinioni, perché non riproporre alcuni di quegli argomenti?

Perché non portare all’attenzione del pubblico una sorta di esegesi, in chiave laica e filosofica, delle Tavole della Legge, svincolandole da qualsiasi significato legato ad una chiave religiosa?.

Ho avuto qualche dubbio in proposito perché si tratta di un argomento difficile e che deve essere trattato con la massima delicatezza.

Ma il là è venuto dalla considerazione che le Tavole della legge, nella loro primitiva stesura, benchè riprodotte in tutte le Bibbie del mondo, sono assai poco conosciute, o meglio, il grosso del pubblico le conosce in una versione semplificata, distorta o corretta.

In questa sede si è deciso di tornare al testo originario, quello che ciascuno può consultare sulla Bibbia che ha in casa, evidenziando come in 3500 anni sia successo qualcosa di molto particolare e cioè che quella per qualcuno è la stessa parola di Dio, è stata modificata dagli uomini che hanno voluto mettersi sullo stesso piano del loro Creatore.

I comandamenti che si trovano nella Bibbia sono diversi da quelli che ci sono stati insegnati a scuola: qualcuno è stato modificato, qualcuno soppresso, qualcuno inventato di sana pianta per sostituire quello soppresso e riportare il numero a 10.

Perché è avvenuto questo?

Scopriamolo insieme nel corso delle varie puntate dedicate a questa materia.



INTRODUZIONE

I comandamenti che la tradizione biblica indica come dettati dal Signore a Mosé sulla cima della Montagna erano, in gran parte, certamente regole di derivazione egizia.

Non si trattava quindi di nuovi codici di condotta dettati appositamente per gli israeliti ma, molto più semplicemente, erano un’epitome delle antiche confessioni dei faraoni tratte dalla Formula 125 del Libro dei Morti.

Il Libro dei Morti dettava la confessione a chi si accingeva a raggiungere Osiride nell’alto dei cieli: Non ho ucciso, non ho rubato, non ho detto il falso.....

Queste confessioni di colpe non commesse vennero trasformate in regole da non trasgredire.

Altre formule invece non hanno nulla a che vedere con la tradizione egiziana: le dichiarazioni iniziali di Adonai (o Geova), che si manifesta come un Dio iroso e vendicativo, come lo era l’Enlil mesopotamico in cui probabilmente va identificato, sono indicative della consapevolezza degli scrittori della Bibbia delle caratteristiche del Dio che essi avevano scelto di adorare; l’esplicitazione di tali caratteristiche consentiva alla casta sacerdotale di ergersi a intermediari autorizzati tra il popolo e il Dio, acquisendo uno strategico controllo delle masse.

Solo i sacerdoti avevano il diritto di comunicare con Adonai (o Geova) e questo dava loro un potere immenso.

Il medesimo processo, come sappiamo, si è spesso ripetuto con successo nei secoli a venire sino ai giorni nostri.

Prima di Mosé non esisteva una casta sacerdotale israelita e non esistevano templi dedicati al culto.

Gli israeliti d’Egitto continuavano la tradizione dei loro patriarchi, a cominciare da Abramo: essi veneravano un Dio, che chiamavano El Shaddai (e più tardi Adonai, il Signore), ma con la loro permanenza in Egitto avevano assimilato alcuni aspetti e concezioni tipici della religione egiziana, che era invece politeista.

L’Adonai degli israeliti doveva quindi probabilmente identificarsi con l’Aton egiziano; le loro stesse preghiere, ad un certo punto, iniziarono a terminare con la parola Amen, in cui molti hanno voluto vedere una sorta di invocazione al Dio Egiziano Amon.

Per gli israeliti Adonai, o Aton, era un Dio di cui, seguendo l’influenza egiziana, mai si sarebbero sognati di sentire la voce, perché questo Dio non aveva una presenza concreta.

E’ probabile quindi che essi identificassero colui che apparve a Mosé nel «Signore della Montagna», colui che nella versione ebraica della Bibbia è sempre chiamato El Shaddai, quello che era apparso ad Abramo.

Solo successivamente gli scribi, gli interpreti e i traduttori della Bibbia, tendettero ad unificare tutte queste espressioni della divinità degli israeliti con i più semplici termini di Dio e Signore.

Secondo la tradizione Biblica dell’Esodo, i Dieci Comandamenti furono dettati dal Signore a Mosé e furono accompagnati da una serie di ordinanze. Fu solo in seguito che il Signore disse a Mosé «Sali da me sul monte: quando sari lassù io ti darò le tavole di pietra, gli insegnamenti e la legge per istruire gli israeliti (Esodo 24,12)» dando istruzioni per la costruzione dell’Arca dell’Alleanza.

Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosé gli diede le due tavole di pietra.

Queste tavole furono spezzate da Mosé (Esodo 32,19) a causa dell’ira per l’idolatria che nel frattempo aveva preso campo fra il suo popolo.

Le tavole della legge furono quindi riscritte dal Signore (Esodo 34,1) dopo che Mosé ebbe tagliato altre due tavole di pietra identiche a quelle che aveva spezzato. In quell’occasione il Signore dettò le condizioni della sua alleanza con il popolo di Israele (Esodo 34,10 e segg.) riproponendo alcuni dei suoi comandamenti ed integrandoli con istruzioni per il culto.

Dopo di che Egli riscrisse le parole dell’alleanza, i Dieci Comandamenti. I principi morali del mondo antico furono quindi in parte trasfusi in quelle tavole e giunti sino a noi.

Nel corso dei secoli, i principi dettati dal Signore della Montagna per un popolo di pastori in cerca di una patria sono stati elaborati, glossati, modificati, adattati a nuovi culti, sino a perdere in molti casi il loro spirito originario.

Vediamo quindi, nel corso delle settimane, di esaminarli uno per uno nel vero testo biblico, depurandoli da qualsiasi trasformazione o mistificazione storica per vedere se essi abbiano ancora la loro attualità e come essi possano – se possano – sposarsi con una morale laica di natura universale svincolata dalla religione o, meglio ancora, tale da poter essere accettata da qualsiasi religione.

Poi approfondiremo altri aspetti storici del testo in questione.





PARTE SECONDA



IL PRIMO COMANDAMENTO

“Io sono il Signore Dio tuo che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dove tu eri schiavo.

Non avere altro Dio oltre che a me.”

Con i suoi comandamenti Adonai, il Signore, rivolge al suo popolo, per la prima ed ultima volta, la propria parola in maniera diretta anziché tramite la voce di altri uomini. Affinché ciò sia ben chiaro, secondo la tradizione biblica, egli affida al proprio intermediario il solo compito di scolpire nella pietra la sua Legge.

In questa versione antica del Primo Comandamento, per raggiungere con efficacia la coscienza degli uomini cui si rivolge, il Signore ritiene opportuno qualificarsi senza possibilità di equivoci, reclamando a sé il merito della liberazione degli israeliti dalla schiavitù d'Egitto. Chiarita la propria identità, egli, come primo comandamento della legge, impone all'uomo di riconoscerlo come unico Dio da adorare.

Adonai, che sempre dalla tradizione biblica sappiamo essere un dio geloso e vendicativo, spazza via, in modo brusco e diretto, qualsiasi tentazione da parte dell'uomo di poter continuare a ricorrere ai variopinti, comodi e divertenti pantheon in allora esistenti e conosciuti, al fine di rispondere allo struggente bisogno di conforto che lo opprime. Gli altri dei rivali di Adonai – che possiamo identificare negli dei del pantheon mesopotamico, quelli della gente di Abramo - non dovranno più avere spazio alcuno nel cuore del popolo di Israele.

Il primo comandamento è quindi il fondamento stesso della religione che impone all’uomo di adorare un solo Dio in mezzo a tanti: a questa prima fondamentale imposizione seguiranno poi comandamenti che in buona parte, per il loro contenuto fortemente etico, costituiscono una pietra miliare nel cammino dell'umanità, al di là della fede religiosa, quale che sia, di ciascun individuo.

Come vedremo, ci troviamo in presenza di comandamenti che, anche a prescindere dalla loro origine, meritano la piena adesione da parte di ogni essere umano e sono parte integrante di fondamentale importanza di qualsiasi filosofia laica e positiva che ponga alla sua base il progresso dell’umanità nella pace e nel rispetto del prossimo.

***

L’esegesi storica del primo comandamento ci impone di prendere in considerazione la sua prefazione importante che dice: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dall'Egitto, dove tu eri schiavo».

In questa prefazione ci vengono presentate chiaramente le ragioni, il motivo, le argomentazioni che obbligano il destinatario dei precetti ad ubbidire a tutti i Comandamenti che il Signore ha dato.

Il primo comandamento vero e proprio dice: «Non avere altro Dio oltre che me» e richiede che si conosca e si riconosca apertamente il Signore della Montagna, El Shaddai o Adonai, come l'unico vero Dio, e, come tale, che gli si renda il culto e la gloria che per questo gli spetta; glorificandolo nella mente, nella volontà, nel cuore, invocando il suo aiuto nel corso della vita.

Non potrà sfuggire allo studioso delle popolazioni del medio oriente che questa imposizione monoteista risale ad un’epoca storica prossima a quella di un’altra rivoluzione monoteista, quella di Akhenaton, il Faraone eretico che impose all’Egitto il culto del dio unico Aton, rappresentato dal disco solare.

E’ molto probabile che l’influenza egiziana si sia riverberata sugli ebrei, che all’epoca di Akhenaton vivevano in Egitto, e che la scelta monoteista degli ebrei abbia diretti collegamenti con l’analoga egiziana.

Vi è addirittura chi ha voluto vedere in Mosé – la cui origine egiziana è stata spesso ipotizzata – lo stesso Akhenaton, di cui i sacerdoti del pantheon egiziano hanno voluto cancellare anche la memoria.

Le analogie dei dieci comandamenti con il libro dei morti egizio depongono a favore di strette affinità tra i due popoli e delle scelte monoteiste tra loro prossime e probabilmente di identica origine.

Resta il fatto che, come gli egiziani in un certo periodo (breve) della loro storia, gli ebrei fanno del monoteismo la loro fede ed adottano come unico Dio il dio di Abramo, El Shaddai, l’Enlil mesopotamico, un Dio collerico e geloso, un Dio degli eserciti che ben poco ha a che vedere con il Dio buono della tradizione cristiana.



PARTE TERZA





IL SECONDO COMANDAMENTO



Non fabbricarti alcun idolo e non farti alcuna immagine a somiglianza di Dio. Non rendere culto a cose di questo genere. Perché io, il Signore, sono un Dio geloso che non sopporta di avere rivali e punisco la colpa di chi mi offende anche sui figli sino alla terza e quarta generazione; al contrario tratto con benevolenza chi mi ama ed ubbidisce ai miei ordini.

La natura di Dio geloso e collerico di Adonai, molte volte evidente nel vecchio testamento, traspare chiaramente anche dal secondo comandamento, che la tradizione cristiana ha completamente cancellato non ritenendolo conforme ai canoni paolini come codificati al Concilio di Nicea.

Mentre il primo comandamento dell’originario testo biblico stabilisce chi debba essere oggetto del culto, e cioè il Signore che parla dalla Montagna, il secondo detta agli uomini i modi e le forme secondo le quali debba svolgersi il culto gradito da Dio e li avverte che severe saranno le punizioni per chi trasgredisce.

Gli Israeliti erano pertanto tenuti a rendere al Signore il culto che egli pretende e che gli è dovuto solo nelle forme e con le modalità che egli stesso ha deciso e previsto: non è consentito al singolo deviare da quelle che sono le disposizioni impartite. Le modalità di culto debbono essere quelle prescritte nella parola di Dio ed esse debbono essere seguite senza tentennamenti e senza deviazioni.

L’esercizio delle ordinanze che fanno da corollario al comandamento deve essere conservato puro da pratiche estranee, e di conseguenza è proibito che il culto avvenga con l’uso di immagini o di qualunque altra cosa o modo non stabilito.

E’ fondamentale notare come sia severamente vietata l’idolatria e cioè l’uso di immagini che rappresentino il Signore o peggio altre divinità sino ad allora adorate anche dal popolo ebraico e di cui si parla nei testi biblici.

Questi altri Dei rivali di Adonai non debbono più avere considerazione od importanza da parte del popolo che Adonai stesso ha scelto come eletto.

Se identifichiamo Adonai con il mesopotamico Enlil e consideriamo il pantheon di cui questi faceva parte, il precetto diventa ancora più chiaro. Esisteva tra gli dei mesopotamici una fortissima rivalità ed una spiccata tendenza a farsi guerra direttamente ed indirettamente attraverso gli esseri umani con i quali stringevano alleanze. Enlil era il dio di Abramo ed aveva di conseguenza adottato i suoi discendenti cui avrebbe mostrato benevolenza ed affetto ma dal quale non avrebbe tollerato tradimenti ed offese, che avrebbe punito molto severamente (e l’episodio del vitello d’oro dovrebbe farci riflettere).

Dal precetto biblico discende il bando della superstizione, che consiste nell’aggiungere invenzioni umane al divino, perché queste attività allontanano Dio dalla nostra stima, essendo lui infinitamente superiore ad ogni sua creatura.

Le ragioni del comandamento sono quindi la manifestazione della sovranità di Dio sull’uomo, il fatto che l’umanità – o meglio il popolo da lui eletto - gli appartiene: logica conseguenza di questo senso di possesso é la gelosia che Adonai ha per ciò che è di sua proprietà e che si manifesta in modi molto forti nei riguardi di chi trasgredisce.

Nella tradizione cristiana che ha elaborato di par suo l’originario messaggio biblico sopprimendone una parte, esistono, come sappiamo, molte pratiche di culto inventate e che, alla luce di quanto detto, vengono giudicate dai cultori dell’ortodossia ebraica come idolatriche e superstiziose, così come le genuflessioni di fronte agli altari, le preghiere agli angeli e ai santi, il crocifisso, il rosario, le benedizioni, il segno della croce, l’uso delle ostie al posto del pane e tutte quelle usanze non menzionate nelle originali scritture.

***

Passando ad un esame più approfondito di questo comandamento dimenticato, osserviamo come esso richieda che si ricevano, si osservino, e si conservino pure ed integre tutte le forme di culto ed osservate tutte le ordinanze che Adonai ha stabilito con la sua parola.

Queste forme sono contenute nelle ordinanze che egli ha prescritto e debbono essere ricevute con piena disponibilità di mente, sia come dovere da compiere immancabilmente che come espressione di riconoscenza e di amore verso Dio.

Una lettura etica di questo comandamento, svincolata da qualsiasi aspetto dogmatico e rapportata a quello che seguirà, porta ad una sola conclusione: la somma dei Dieci Comandamenti è “amare”. Amare il Signore nostro Dio ed il nostro prossimo come noi stessi.

E ricordando infine la forma in cui Dio diede i dieci comandamenti a Mosè sul monte Sinai, notiamo che questi erano scritti su due tavole di pietra: le tavole della Legge. La prima tavola ha a che fare con i nostri doveri verso Dio. Il nostro dovere è quello di amarlo incondizionatamente con tutto noi stessi.

La seconda tavola ha a che fare con i nostri doveri verso ogni creatura umana, cioè quello di amarla come noi amiamo noi stessi.

Quindi i dieci comandamenti si possono riassumere nel dovere all'Amore, che nel nostro cuore, come esseri umani dobbiamo sentire profondamente in ogni giorno della mia vita terrena.

Conclusione, se vogliamo, molto singolare, se partiamo da un testo che enunzia cose ben differenti. Questo sta a significare che non sempre bisogna soffermarsi sulle apparenze ma occorre invece andare a fondo: scava nelle profondità della terra e troverai la pietra occulta, diceva un antico saggio.

Scava nel testo delle tavole della legge e troverai l’essenza dell’umanità, possiamo invece dire noi oggi.



PARTE QUARTA





IL TERZO COMANDAMENTO



Non usare il nome del Signore Tuo Dio per scopi vani perché io, il Signore, punirò chi abusa del mio nome.

Il terzo comandamento esprime il precetto, per chi ha fede, di non nominare il nome di Dio invano, di non «bestemmiare» il nome di Dio.

Si tratta di un principio fondamentale da rispettare allorché l’israelita faceva atto di fede al Signore; la fede presupponeva un’adesione ed un rispetto incondizionato, che non deve mai venire meno, anche nel semplice uso del nome di Dio, del quale non si può abusare.

Il Signore va quindi pregato e rispettato, il suo messaggio ed i suoi insegnamenti debbono diventare un esempio ed una direttiva da seguire nella vita quotidiana per i fedeli: pertanto anche il suo nome deve, al pari del suo insegnamento, essere sempre oggetto di massimo rispetto. Ogni violazione di questo precetto verrà punita.

E’ questo il senso di avere un credo e, nella specie, un aspetto peculiare della fede: deve esservi il timore di Dio in quanto monito ed esempio per gli uomini.

Secondo la cosmogonia ebraica, Dio è creatore di tutte le cose, ed il mondo che può apparire ingiusto e malvagio, ha in realtà una profonda moralità e tende ad un alto fine religioso.

Il Signore viene offeso dal peccato nella sua santità e nella sua giustizia, che con il passare dei secoli non avrà più carattere capriccioso (come i vari dei delle precedenti credenze politeistiche e come il dio adorato dai primi israeliti), ma si trasmuterà in soprannaturale ed assoluta.

Il peccato diventa offesa alla perfetta giustizia e abusare del nome di Dio è a sua volta una offesa alla perfetta giustizia che Adonai rappresenta.

A ben vedere questo concetto ha implicito in sé il sentimento e l’idea di un diritto naturale che può e deve valere per ogni uomo aldilà della propria fede religiosa.

Questo comandamento esprime infatti il concetto che chi persegue un ideale, crede in una dottrina, cerca la verità, non deve mai andare oltre al proprio ideale, alla propria fede per scopi vani o distorti, né deve mai superficialmente rinnegare e «bestemmiare» il Dio, l’ideale, la verità in cui crede.

La serietà di un impegno, di una fede, di una ricerca, si vede dal rispetto che noi stessi abbiamo verso l’impegno assunto.

Il comandamento dettato richiede, nella sua applicazione, uno specifico atto di volontà.

Il cristianesimo, che ha riproposto, sia pure in parte, il medesimo comandamento del Dio degli Israeliti, ha mostrato proprio l’importanza del problema della volontà, come problema di conversione radicale di essa dallo stato di soggezione al peccato, allo stato di libertà nell’amore di Dio e del prossimo.

Sempre il cristianesimo ha soppresso la parte di comandamento che punisce chi viola il precetto divino.

Seguendo l’evoluzione del pensiero occidentale possiamo affermare che riconoscere l’essere quale volontà, al quale dettare delle regole, significa riconoscere il carattere «personalistico» dell’essere: la volontà è espressione di spontaneità, di scelta, di iniziativa in un senso piuttosto che in un altro e l’essere umano non è soltanto intelletto e sensazione, unicamente capace di conoscenza vera o falsa, ma volontà rivolta all’azione.

Basta mutare la terminologia per appurare che il comandamento e quindi la richiesta di un atto di volontà è pienamente compatibile con i principi che ispirano il percorso dell’uomo che ricerca la verità ed il cui personale cammino nella conoscenza non è solo sommatoria di esperienze e nozioni, ma di continui atti di volontà per perseguire il giusto.

Anche per un laico libero pensatore questo comandamento ha dunque un senso.

Il senso consiste nel dovere di non abusare mai per scopi vani delle cognizioni acquisite, nel divieto di utilizzare la propria personale esperienza per fini negativi, nel divieto di scendere a patti con la propria coscienza e rinnegare così l’impegno assunto nei confronti di sé stessi: se Dio è in noi, frutti della scintilla divina, ogni azione del genere è una bestemmia verso chi ci ha creato.

Il terzo comandamento è, a ben vedere, molto più profondo rispetto al pensiero di chi lo ha ridotto a semplice divieto di nominare invano il nome del Signore.



PARTE QUINTA



IL QUARTO COMANDAMENTO



Ricordati di consacrarmi il giorno di sabato: hai sei giorni per lavorare ma il settimo giorno è il sabato consacrato al Signore, tuo Dio. In esso non farai alcun lavoro: né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame e neppure il forestiero che abita presso di te. E così farai perché io, il Signore, ho fatto in sei giorni il cielo, la terra, il mare e ciò che contengono ma poi mi sono riposato il settimo giorno; per questo ho benedetto il giorno di sabato e voglio che sia consacrato a me.

Con il quarto comandamento il Signore della Montagna impartisce al suo popolo le regole che disciplinano il riposo dal lavoro e stabilisce l’obbligo di ogni buon israelita di dedicare ad esso Adonai una parte della propria vita.

L'imposizione precettizia che viene data dettata indistintamente per tutti, nessuno escluso, appare immediata e non consente replica: è necessario lavorare, ma un giorno la settimana, il settimo, dovrà essere dedicato al riposo proprio come Dio aveva fatto dopo la creazione riposando il sabato. E l’uomo dovrà riposare il sabato dedicandolo al Signore.

Non sfuggirà all’attento lettore che in questa originaria versione del comandamento si riportano tutti i soggetti che hanno il diritto-dovere di riposarsi, compresi gli schiavi che, evidentemente, non avevano comunque diritti nella società dell'epoca. La loro citazione appare opportuna per significare l'importanza non tanto del riposo, quanto della consacrazione di detto giorno al Signore, dalla quale nessuno può reputarsi esentato.

Il nome del sabato è esplicitamente unito dalla Bibbia ad una radice che significa "cassare, riposare" e viene individuato quale giorno di riposo settimanale consacrato a Dio, che ha riposato nel settimo giorno della creazione.

L'istituzione del sabato è molto antica, ma la sua osservanza ha assunto una importanza speciale a partire dall'esilio ed è diventata una caratteristica del giudaismo.

Ancora oggi il rispetto del sabato è rigoroso per chi professa la religione ebraica e per i seguaci di quelle confessioni cristiane, come gli avventisti, che non hanno accettato la revisione post Niceana dell’individuazione del giorno di riposo (e che non a caso si chiamano anche “cristiani del settimo giorno”).

Non a tutti è infatti noto che i primi cristiani, proprio come gli ebrei, festeggiavano il Signore il sabato, il settimo giorno, mentre i pagani festeggiavano il dio sole nel giorno di domenica, il primo giorno della settimana.

Quando, dopo Costantino ed il Concilio di Nicea, la religione cristiana divenne religione dell’impero, i suoi capi pensarono bene di adattarsi a quelle che erano le tradizioni pagane imperanti: una di queste fu quella di spostare dal sabato alla domenica il giorno di riposo per unificare la festa cristiana con quella pagana del Dio Sole (o Sol Invictus) caro a Costantino ed alle sue truppe.

Fu così che l’occidente cristiano prese a festeggiare il Signore un giorno diverso da quello che egli aveva stabilito: al tempo stesso rileviamo come, rispetto al testo originario, il comandamento sia stato modificato, semplificandolo in "Ricorda di santificare le feste" e dando allo stesso un significato diverso, più generico e soprattutto non impositivo.

Ancora una volta il significato originario del comandamento si è perso: in una società secolarizzata e globalizzata non ha più senso parlare di un giorno di riposo collettivo. Quello che in un certo modo era un dono divino, la concessione di un giorno in cui era lecito non lavorare, con il passare dei secoli è diventato qualcosa di diverso. Forse questo è il comandamento che meno ci interessa dal punto di vista attuale, anche se, a ben guardare, la sua storia è tra le più intriganti.



PARTE SESTA



IL QUINTO COMANDAMENTO



Rispetta tuo padre e tua madre, perché tu possa vivere a lungo nella terra che io, il Signore tuo Dio, ti do.

Il quinto Comandamento è un vero cardine della vita sociale, questo «comando» non riguarda solo, come potrebbe pensare un superficiale esegeta, il rapporto d’amore nei confronti dei genitori, ma è anche una precisa esaltazione del buon funzionamento dell’intero reticolato delle relazioni tribali, famigliari e socio-politiche che caratterizzavano la società del secondo millennio avanti Cristo.

«Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: questo è il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra».

La condizione terrena di benessere che il Signore della Montagna prospetta al fedele è dunque legata al comportamento nei confronti dei genitori e, per esteso, nei confronti della famiglia.

Poiché il Signore, geloso e vendicativo ma al tempo stesso giusto e mai mendace, mantiene sempre le sue promesse, ognuno ha modo di scegliere la propria buona o cattiva vita terrena in conformità al comportamento che egli terrà in relazione ai rapporto sociali e familiari.

In questo si esprime in pieno il primo e massimo comandamento che è nel cuore di ogni fiero e leale appartenente alla comunità umana: vivere l’amore verso gli altri. E’ questo il punto fondamentale su cui alla fine dei suoi giorni terreni ciascuno verrà giudicato.

L’Uomo libero e rispettoso della legge naturale e divina tende naturalmente a crescere interiormente ed a far partecipe della sua tendenza alla perfezione ogni suo simile che sappia come lui indirizzare la sue aspirazioni verso l’Alto.

Ma perché il comandamento parla di “rispetto” verso i genitori e non invece di “amore”?

Non è forse l’amore il sentimento più immediato dei figli per i genitori?

Purtroppo la vita adulta insegnerà come ci si possa disamorare anche di chi ci ha dato la vita.

Il Signore perdona una cosa del genere: ma non perdona e non consente che ai genitori non venga comunque dato loro almeno ascolto e rispetto.

Nei due testi presenti nell’Esodo e del Deuteronomio leggiamo che a chi onorerà e rispetterà il padre e la madre, Dio promette una vita lunga e felice. Tanto costa, anche a Dio, tenere sottomessi i figli!

Io non ti amo più, ma ti onoro e ti rispetto, dice il figlio al padre ed alla madre.

Io rispetto la tua debolezza fisica e mentale, il tuo decadimento dovuta alle leggio della natura. Io mi curo o mi attivo, perché non ti manchi alcun conforto nei giorni che restano della tua vita.

Anche se non condivido la tua opinione e le tue idee, io non ti mortifico con risposte brusche ed insofferenti e non mi azzardo a sollevare la mia ira verso di te.

Io ti rispondo con calma e non infierisco contro di te. Nella tua debolezza di oggi non vedo il decadimento che ti ha colpito, piuttosto ricordo la bellezza e la lucidità del passato, la tua forza ed il tuo amore quando mi prendevi in braccio e mi parlavi.

L’abbruttimento, la senescenza, la demenza sono solamente un appannamento della sicurezza e della forza che ti distinguevano e ti facevano speciale per me.

Onorare, rispettare significano: aiutare, consolare, supportare, esaltare.

L’osservanza di questo comandamento non può essere un pesante fardello per l’uomo che ha scelto di vivere la sua vita nel rispetto delle leggi del Signore.

Saper riconoscere in ogni componente lo status familiare o sociale una qualità che sai di possedere anche tu, significa riconoscere che non è più solo per te che la natura suona le sue melodie.

Tu sai gustare con tutti i tuoi sensi la pienezza delle armonie che altri, inconsciamente intorno a te e prima di te, hanno conosciuto e ti hanno trasmesso.

Onorare e rispettare il padre e la madre renderà l’uomo probo sempre più libero ed egli potrà dire: «nell’osservanza alla Legge è la mia libertà».

Onorare il padre e la madre è mettere il proprio piede nelle loro orme. Spesso l’orma che precede è troppo grande o troppo piccola. Saper adattare il proprio piede ad essa è preparare la discendenza ad accettare di buon grado di camminare un giorno sulle proprie.

In questo modo si realizza la promessa del Signore: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. Sebbene la vita sia ormai quella dei figli dei propri figli. Finché una piccola orma umana si sforzerà di ricalcare l’orma che la precede ci sarà la speranza che: ubbidienza, libertà e fratellanza possano prosperare.





PARTE SETTIMA



IL SESTO COMANDAMENTO



Non uccidere.

Probabilmente ci troviamo in presenza del principio più importante di qualsiasi morale o filosofia, anche a prescindere da qualsiasi pensiero religioso.

L’uomo è l’unico essere vivente che uccide al di fuori delle necessità alimentari ed arriva ad uccidere il suo simile anche per motivi banali o futili.

Questo antico precetto, che avrà valore sino a che l’uomo abiterà il creato, trova riflesso in un altro principio, anch’esso comune a molte religioni e filosofie: «ama il prossimo tuo come te stesso».

A corollario di una filosofia di amore verso il nostro simile possiamo aggiungere “fai al prossimo tutto il bene che vorresti fosse fatto a te”.

Non a caso leggiamo nel Vangelo di Matteo da parte di Gesù parole pesanti che amplificano l’importanza e la gravità del divieto di ammazzare il proprio simile: «Voi avete udito cosa fu detto agli antichi: Non uccidere…e io vi dico chiunque andrà in collera col suo fratello sarà condannato...»

Estrapolando il principio dal suo contesto storico, è evidente che il precetto biblico ed il messaggio evangelico vanno ben oltre la semplice condanna della soppressione alla vita umana.

Essi condannano non solo l’uso della violenza ma anche le sue cause: odio, ira, desiderio di vendetta.

Ed esaltano i loro opposti: amore, tolleranza, cura degli altri.

Da qui possiamo trarre la condanna assoluta dell’uccisione del proprio simile, anche se se questi si è macchiato dei crimini più orrendi.

Non a caso, nelle prime pagine della Genesi, Jehowah mette in guardia l’umanità dall’arrecare del male al primo assassino: Nessuno tocchi Caino, l’assassino di suo fratello Abele.

E’ significativo che il primo divieto divino alla soppressione del simile venga profferito in occasione di un crimine efferato.

Il Signore mette in guardia l’uomo e gli ricorda che non ha il diritto di togliere la vita.

Da qui una conseguenza: gli Stati che applicano ancora la pena di morte sono stati che tradiscono la parola di Dio, sono stati blasfemi.

E chi applica la pena di morte è, lo piaccia o no, assassino tale e quale chi viene mandato al patibolo.

Non ci sono giustificazioni di sorta. Il divieto biblico non ammette eccezioni.



PARTE OTTAVA



IL SETTIMO COMANDAMENTO



Non commettere adulterio.



Immagino già che qualcuno interessato a questi modesti studi possa essere indotto a ritenere che la dizione del comandamento non sia corretta. Va quindi rilevato come questo comandamento, nel corso dei secoli, per ragioni di opportunità o di indottrinamento di masse ignoranti, abbia subito profonde modifiche sino a perdere il suo vero e corretto significato.

Queste modifiche hanno snaturato il precetto originario e provocato una mistificazione che ha comportato il tradimento dello spirito originario della parola del Signore della Montagna al fine di giustificare la proibizione di determinati atti in forza di una morale sessuofoba e sessista.

Chi ha la mia età forse ricorderà che nei catechismi scolastici dei primi anni sessanta si trovava non solo una versione molto diversa ed una numerazione differente (e scorretta) dei comandamenti; in particolare noi ragazzini potevamo leggere la dizione «non commettere atti impuri» e i meno smaliziati di noi pensavano che volesse dire di non mettersi le dita nel naso o di non andare a tavola senza lavarsi le mani (o qualcos’altro che evito di riferire).

Proprio in quegli anni la dizione di cui sopra venne sostituita dalla ancora meno comprensibile «non fornicare», e ricordo che nessuno ci spiegava cosa fosse il “fornicare”: al massimo qualche suora ci diceva che non dovevamo fare delle porcherie non meglio giustificate.

A distanza di anni mi viene in mente quel gustoso pezzo del film Amarcord quando il prete del paese chiedeva al protagonista Titta se “si toccava”.

Ma non divaghiamo: il precetto biblico, le Tavole della Legge, non parlano affatto di atti impuri (che a 50 anni devo ancora capire cosa sono) né di fornicazione (che invece ho capito essere una cosa bella) ma di qualcosa di diverso: la parola del Signore riporta infatti il preciso divieto di «non commettere adulterio» ovvero il divieto di avere rapporti carnali con persona legata dal vincolo del coniugio ovvero averli con terzi in costanza di detto vincolo.

Questo precetto, che vieta un comportamento molto ben identificato e presuppone quindi il compimento di una azione, ha una precisa relazione con l’ultimo, il quale, come vedremo, vieta anche il solo desiderio delle cose altrui, compreso il coniuge del prossimo.

Per capire questo divieto e per poter esprimere dei corretti concetti occorre aprire una parentesi storica, che va dai tempi del monolito nero di 2001 Odissea nello Spazio sino ai giorni nostri.

Ai tempi in cui l’uomo era un primate che si affacciava alla vita, nel mondo animale la promiscuità sessuale è la regola perché permette la selezione genetica. Avere più partners significa infatti mettere al mondo soggetti aventi diverso patrimonio genetico e quindi maggiormente atti a sopravvivere.

Anche l’uomo, nella sua evoluzione, ha seguito la stessa trafila: le donne dovevano attirare il maschio al fine di farsi fecondare e sino a che camminavano carponi avevano sviluppato la cosa più attraente, le natiche, che dovevano invitare ad un accoppiamento da tergo. Quando gli esseri umani hanno cominciato a camminare eretti ed i bacini delle femmine si sono ristretti per poter muoversi agevolmente, ecco la perdita del pelo e lo sbocciare dei seni, preludio ad altre forme di accoppiamento.

Con lo sviluppo dell’intelligenza sono sorti anche legami di coppia che in natura sono rarissimi fra gli animali: il concetto di matrimonio nasce quindi da un rapporto stabile di coppia, che non si limita ad un fugace accoppiamento a fini riproduttivi.

L’intelligenza presuppone anche una lenta crescita della prole e la necessità di allevarla ed educarla: la presenza di due genitori invece che di uno solo è fondamentale nelle società primitive. La madre alleva il piccolo nei primi anni di vita, il padre gli insegnerà poi a cacciare ed a difendersi.

Saltando qualche migliaia (o milione) di anni, arriviamo alla storia: l’esistenza di quella che oggi chiamiamo famiglia e cioè di un nucleo più o meno stabile di esseri umani, fa sorgere ovviamente il problema del tradimento e cioè dell’accoppiamento con soggetti estranei al nucleo stesso.

Poiché nelle società più antiche aveva estrema importanza la linea di sangue o di discendenza (si pensi alle linee che discendono da Abramo, da Davide e così via che si trovano nella Bibbia), è ovvio che si tenda a salvaguardare la purezza della linea vietando accoppiamenti (che possono generare figli illegittimi) al di fuori del nucleo familiare.

Ovviamente questo era un divieto estremamente trasgredito e forse era logico ed ovvio in società ancora chiuse e dove spesso ci si sposava tra parenti (si pensi ai faraoni che sposavano la propria sorella) e quindi l’adulterio era ancora il mezzo per rafforzare patrimoni genetici instabili o difettosi.

Non esisteva comunque profonda differenza tra l’adulterio maschile e quello femminile e non a caso il precetto biblico non fa alcun cenno in proposito, a significare come esso sia destinato, come tutti gli altri, alla generalità del popolo eletto.

Passando alle altre società storiche, per avere un quadro sintetico ma completo della situazione, possiamo dire che l’antica Grecia era più tollerante (anche perché colà era praticata anche l’omosessualità o meglio la bisessualità e spesso l’adulterio era consumato con persona dello stesso sesso, senza rischi di contaminazione genetica).

Roma invece puniva l’adulterio maschile e femminile nello stesso modo, anche se, come sappiamo, la posizione femminile nella società romana era in genere di secondo piano, potendo avere pieni diritti solo la donna che non fosse sotto la “manus” del padre o del marito, fosse, come si dice oggi, “emancipata” e cioè, “libera ex manu”.

Solo sotto l’avvento del cristianesimo medioevale le cose cambiano: l’adulterio femminile era punito, quello maschile sempre tollerato. E le cose sono rimaste così sino ai nostri giorni.

Nel Codice penale italiano del 1930 l’adulterio era punito sia per l’uomo che per la donna (e si finiva anche in galera). Poi, a partire dagli anni sessanta, in forza di sentenze della Corte Costituzionale, l’adulterio ha smesso di costituire reato. Va rilevato come, per un certo periodo, si ebbe una sorta di transizione, in forza della quale venne meno la punibilità del maschio, con conseguente differenza di trattamento a carico della donna. Questa infatti veniva sempre punita mentre per l’uomo ciò accadeva solo nelle più gravi forme del concubinato.

Questa disparità di trattamento venne infine cassata dalla Corte Costituzionale; con la riforma del diritto di famiglia del 1975, l’adulterio non è oggi neppure di per sé causa di separazione coniugale.

Oggi leggiamo che l’adulterio è una cosa comune: che più del 50% delle persone sposate italiane sono adultere, indifferentemente tra uomini e donne ed all’estero sono ancora di più.

Qualcuno ha affermato che in questo decenni di trasformazione, di continui progressi, tecnici, economici e soprattutto culturali, molti pregiudizi sono andati via via scomparendo sino a rendere tollerabile, se non moralmente lecito, quello che prima era riprovato.

Sembra cioè, a leggere quello che troviamo sui giornali o a vedere quello che ci propina ogni sera una televisione abominevole, che le persone non abbiano più sentimenti, o meglio, che non riescano più ad esprimerli, tanto sono prese dalla ricerca frenetica del successo. Si sono modificate sostanzialmente le scale dei valori, oggi spesso, prima viene il lavoro, poi la cura personale e quindi il rapporto coniugale, che ha perso ogni sacralità.

La maggioranza delle persone passa gran parte del tempo nei luoghi di lavoro o comunque non in famiglia:

esse hanno quindi molte possibilità di incontri o di frequentazioni e ciò favorisce inevitabilmente i casi di adulterio. Ma se una volta questo avveniva per passione o sentimenti simili, oggi questo spesso avviene senza alcun coinvolgimento mentale: si commette adulterio come si consuma un pasto insieme o si fuma una sigaretta.

Si commette adulterio per gioco senza mettere in discussione il coniuge, la famiglia, o i figli: come andare in palestra e sudare un po’ per mantenere la linea.

Si tratta quindi, come ci dicono gli studi in proposito, di semplici adulteri fisici che, a quanto pare, coinvolgono più della metà degli italiani in età da far sesso e che non hanno nella maggior parte dei casi alcuna conseguenza sui rapporti familiari (nel caso opposto i Tribunali sarebbero intasati da cause di divorzio).

D’altra parte sappiamo che i giovani iniziano a far sesso molto presto: per loro è spesso un gioco delizioso ed il cambio di partners è normale. D’altra parte, in coscienza, come condannarli: quella è l’età in cui si hanno pochissimi problemi e dedicarsi a certe esperienze gioiose e piacevoli non può fare che bene.

Alzi la mano chi rinnega le proprie esperienze giovanili in materia; esperienze che, per quello che mi risulta, spesso hanno portato a matrimoni felici e durevoli.

Fatto questo excursus storico-etico, è ovvio che il precetto biblico assume valenza diversa rispetto al contesto storico in cui lo si esamina e che probabilmente, vista la peculiarità dell’animo umano, si debba anche fare una distinzione fra l’adulterio fisico e quello morale.

Non è facile sopprimere il desiderio, ma, per una persona di sentimenti “puri”, è ancor più difficile immaginare che un atto di adulterio compiuto possa mantenere integri i valori della famiglia: vi possono infatti essere conseguenze che incrinano il rapporto di coppia basato su principi di reciproca fiducia.

La storia ci insegna che la chiesa cattolica ha spesso tollerato questo peccato: essendo contraria al divorzio sarebbe naturalmente accondiscendente verso l’adulterio quale sfogo nei confronti di un rapporto in crisi ma che non si può sciogliere.

«La vita - dice Cesare Pavese - senza il senso del peccato è noiosa da far spavento».

Grazie al successivo pentimento e al perdono, l’adulterio pare essere in accordo con la fede cristiana.

La pietra dello scandalo, secondo la morale cristiana tradizionale, è quindi il divorzio, non l’infedeltà.

Il concetto del «tradimento» è ancora trionfante perché è seminatore di peccato.

Per chi, come me, crede nei valori della famiglia ma reputa che il divorzio sia un male necessario perché costringere due persone a restare legate quando non lo vogliono più è un atto di violenza criminale, l’adulterio è spesso non la causa della rottura di un rapporto ma la conseguenza naturale di un rapporto che si è già incrinato.

Per altri le cose stanno in maniera diversa: eminenti teologi leggono nell’adulterio (anche quello soltanto immaginato e vagheggiato) il senso del divino.

La lampada del peccato si accende, la trascendenza incalza il peccatore e la peccatrice e li riconduce all’ovile domestico. «Oscurare» il peccato nel gioco erotico è d’intralcio alla visione divina.

Il peccato è quindi accompagnato dal senso di colpa.

Secondo il “divino marchese” De Sade, la virtù non conduce che all’inazione più stupida e più monotona. Il vizio sarebbe conforme alle leggi della natura.

Paiono dare a De Sade le indagini statistiche sopra citate: la maggioranza della popolazione è adultera. Le donne stanno riguadagnando terreno, soprattutto nel nostro meridione, prendendosi una rivincita nei confronti di una popolazione maschile dove essere “cornuti” è un’onta gravissima. Ma a mio giudizio si tratta solo di statistiche che in passato non hanno detto tutta la verità: le donne in passato sono apparse meno adultere solo perché restie a rivelare i segreti intimi; esse in genere nascondevano meglio degli uomini la loro propensione a trasgredire e a peccare. Oggi non più: lo fanno e non hanno difficoltà a dirlo.

Ma cos’ha di particolare l’adulterio? L’adulterio rientra in quel genere di azioni (qualcuno direbbe “peccati”) che appagano la testa e il cuore, le gonadi e le ghiandole surrenali; soprattutto l’io privato. Concentrarsi in automobile o in autobus sui conclavi sessuali cancella dalla vista le sgradevoli immagini del traffico cittadino.

Il penoso vuoto della sublime noia che spesso avvolge la vita di una coppia adagiata nel suo tranquillo ritmo infernale può essere riempito dall’adulterio senza compromettere il matrimonio.

Alcuni sessuologi affermano che in questi casi la “legittima” unione ne trae spesso vantaggio. Uno dei maggiori doni della vita è infatti la trasgressione; la più “innocua” è l’infedeltà. Essa è facilmente praticabile, provoca piacere e non reca danno alla società.

Per il cristiano, e per il cattolico in particolare, il tradimento è una cosa condannabile; ma dopo l’adulterio c’è il pentimento al confessionale. Il pentito si confessa, viene perdonato e rientra in casa redento. E’ facile spiegare così l’infatuazione per l’adulterio regnante nell’Italia confessionale di mezzo secolo fa.

Le cose sono cambiate: nel XXI secolo è declinato vorticosamente il desiderio di unirsi in matrimonio. Le coppie di fatto sono sempre di più, i matrimoni civili hanno raggiunto quelli celebrati in chiesa; nessuno si azzarderebbe più a definire “pubblici concubini” due persone che si sono sposate in municipio.

Tuttavia per la morale cristiana tradizionale il divorzio resta la negazione della coniugalità. L’intenzione dei filosofi della morale cristiana è quella di conservare i peccatori nei confini della chiesa, condannando i divorziati. L’adulterio, agli effetti della virtù, è e rimane un antagonista indispensabile.

E per «favorirlo» si accorda il perdono.

Meglio quindi un adultero (o adultera) che una persona divorziata (che magari fa comunque la comunione.

Nell’interesse del peccato (motivo di condanna ma, soprattutto, di pentimento nell’ambito della religione) si salvi il matrimonio. Pecchi lui, pecchi lei. Si trasgredisce con il corpo, mostrando come dice il sommo Dante, «ciò che in camera si puote».

Il progetto della chiesa cattolica per questa società secolarizzata pare quindi essere una sorta di compromesso storico tra matrimonio ed adulterio, che è stato infatti da tempo cancellato dai comandamenti e sostituito dall’incomprensibile “non fornicare” che dice tutto e nulla e non fa paura a nessuno, perché chiunque di noi è certo di non fornicare (e chhe ‘vvordì? direbbe un Montesano del 1967).

Per chi, come il sottoscritto, ha scelto la via umanistica e non dottrinale della tolleranza, è difficile giudicare chi compie adulterio nei confronti del coniuge. Non giudicare se non vuoi essere giudicato.

Ed il precetto originario biblico appare trasfigurato in una società molto diversa come quella attuale, dove la religione è spesso una riserva dei più sfortunati.

In questo contesto è ovvio che, di fronte a situazioni quali quelle di persone che, vivendo in paesi con culture differenti dalle nostre, vengono punite, anche mortalmente, per essere state giudicate, spesso sommariamente, colpevoli di adulterio, il nostro giudizio non può che essere parimenti tollerante.

Nessuno può assumere il ruolo di giudice morale del proprio fratello. Proprio in un passo del Vangelo troppo spesso dimenticato, di fronte ad una donna reputata adultera e che si voleva lapidare, Gesù disse “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

Ecco, la mia opinione di uomo libero è quello di repulsione verso chi, a causa di «usanze», «leggi» o «insegnamenti» religiosi, compie queste «ingiustizie».

Nessuno è mondo da poter scagliare la prima pietra.

E di conseguenza il precetto biblico, nel terzo millennio, mantiene intatta la sua valenza morale.

L’adulterio non offende solo il Signore, per chi è credente, ma offende anche il prossimo. Ma nessuno si azzardi a scagliare quella pietra perché offeso: non ne ha il diritto.
[Modificato da (richard) 15/08/2013 21:34]

04/08/2011 23:13

I "Comandamenti" dell’antico Egitto



Il Libro dei Morti (o più propriamente I capitoli del giorno che viene) era il testo funerario sacro per gli antichi egizi pieno di formule e invocazioni per accedere all'altra vita. Sembra sia nato in epoche ancora più antiche rispetto al periodo arcaico delle prime dinastie. Secondo Wallis Budge1 la fonte primaria del libro non è di origine Egiziana poichè l’opera, anche nella più antica Recensione, contiene insegnamenti e cognizioni talmente elaborate e sottili non ascrivibili agli indigeni dell’epoca ma sono da ascrivere probabilmente ad una precedente civiltà molto evoluta. In questo Libro ho trovato molto interessante la Confessione Negativa, composta di oltre quarantadue "confessioni" di comportamenti, che il defunto doveva affermare davanti al giudice Supremo Osiride ed ad altri 42 Dei minori invocati come "Signori di Verità e Giustizia". Tali dichiarazioni al negativo ricordano i Dieci Comandamenti, ma a mio avviso alcune sono molto più profonde e presuppongono un alto contenuto di civiltà e saggezza che noi non abbiamo ancora raggiunto. Ne elenco alcune e giudicate voi:

Non ho fatto piangere nessuno

Non ho ostacolato la Verità

Non ho terrorizzato nessuno

Non ho commesso iniquità contro gli uomini

Non ho maltrattato i sottoposti

Non ho maltrattato gli animali

Non ho cercato di conoscere ciò che non si deve .

Non ho calunniato

Non ho affamato nessuno

Non mi sono arrabbiato senza giusta causa

Non sono stato ingiusto

Non ho esagerato con le mie parole

Non ho agito con arroganza

Non ho agito con odio

Poi vi sono altre confessioni tipo Non ho ucciso , Non ho bestemmiato, Non ho rubato ecc che sappiamo bene sono ripresi anche dalla religione cristiana con i Dieci Comandamenti. Ricordiamoci che, secondo la tradizione Mose' , era stato educato alla corte dei Faraoni.

Si può notare come per gli antichi Egiziani sia altissimo il senso della Giustizia e fondamentale la conseguente ricerca della Verità per questo invocavano i loro Dei come "Signori di Verità e Giustizia" . Per loro il mondo non era vivibile se non veniva sconfitta l'ingiustizia e ricercata la verità. Nei Testi delle Piramidi2 è detto: "Dì ciò che è, non dire ciò che non è, l'abominio di Dio è la falsità della parola".

Il più sublime "Comandamento" tra quelli riportati sopra, penso, sia Non ho fatto piangere nessuno! Questo significa che ciascuno secondo le proprie possibilità e nel limite delle possibilità umane doveva adoperarsi perché nessuno dovesse soffrire. Quanto questo Comandamento fosse preso seriamente lo spiega questo fatto. Un Faraone trovandosi in barca con il suo seguito aveva notato che un'ancella piangeva. Le chiese perché piangeva . Lei rispose perchè le era caduto un anello nel lago. Le disse di non piangere perche' le avrebbe donato altri anelli a sua scelta. Però l'ancella, piangendo, rispose che quello era un anello donatole dal suo fidanzato. Allora il Faraone per ricuperare l'anello fece prosciugare il lago e l'ancella fu felice.

Anche Non ho terrorizzato nessuno si discosta moltissimo dalla nostra morale corrente se pensiamo che la nostra società "civile" e pure le religioni più seguite sono basate sul terrore.

Nella nostra società se un individuo non ha fatto piangere o terrorizzato qualcuno viene considerato nessuno!!!





In questa composizione è rappresentata la Confessione della defunta e la pesatura del cuore davanti al Dio Supremo Osiride e agli altri Dei e con l'assistenza della Dea Maat, dea della Giustizia e Verità. Il libro dei morti veniva riportato in papiri ritrovati in numerose tombe, o sui muri, e raffigurati con scene simili a questa . Anche il testo era generalmente lo stesso con piccole variazioni a secondo dell'epoca.

Ulteriore Riflessione

Nel passato, in momenti di crisi delle loro società, eminenti personaggi come Erodoto, Pitagora, Platone, Plutarco, Apuleio ecc hanno cercato un messaggio di verità e certezza nella civiltà e società Egizia che ancora era presente. Oggi, dopo oltre duemila anni, in una società che ha perso ancora di più tutti gli antichi valori, moltitudini di persone, forse anche inconsciamente, si rivolgano, sempre più numerosi, alle antiche civiltà, soprattutto quella egiziana, per trovare delle certezze. Una civiltà che, prima distrutta dalle legioni romane e poi sepolta dalle nuove Religioni, mantiene ancora intatti i sui valori universali che si riassumano in due parole: Verità e Giustizia. Più ci si addentra nello studio di questa civiltà così perfetta, più ci si rende conto di quanta falsità, voluta, pervada la nostra società. Una cosa ci inquieta e ci resta da capire: come poteva questa civiltà avere, fin dal suo albore, un senso della rettitudine così elevato? Chi aveva dato loro queste certezze ? Questo è un ulteriore motivo che spinge molte persone a cercare per avere forse altre verità che ci facciano capire definitivamente chi siamo.




04/08/2011 23:21

Dieci Comandamenti secondo la tradizione ebraica dell'Esodo:


1.Io sono l'eterno tuo Dio, che ti trasse dalla terra d'Egitto, dal luogo dove eri schiavo.
2.Non avrai altro Dio che me; non ti farai o adorerai alcuna immagine o figura.
3.Non pronunciare il nome del Signore Dio tuo invano.
4.Onora il giorno del sabato per santificarlo
5.Onora tuo padre e tua madre
6.Non uccidere
7.Non commettere adulterio
8.Non rubare
9.Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo
10.Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, nè il suo schiavo, nè la sua schiava, nè il suo bue, nè il suo asino, nè cosa alcuna appartenga al tuo prossimo.



Ecco qui di seguito la versione riconosciuta in ambito cattolico e luterano (che segue il testo del Deuteronomio):












1.Io sono il Signore, tuo Dio. Non avere altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo nè immagine. Non ti prostrerai davanti a quelle cose.
2.Non pronunciare invano il nome del signore tuo Dio
3.Osserva il giorno di sabato per santificarlo
4.Onora tuo padre e tua madre
5.Non uccidere
6.Non commettere adulterio
7.Non rubare
8.Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo
9.Non desiderare la moglie del tuo prossimo
10.Non desiderare la casa del tuo prossimo nè alcuna delle cose del tuo prossimo
Come vediamo le differenze sono lievi e comunque il significato è quello.
Secondo le scritture questi comandamenti sarebbero stati dettati da Dio a Mosè per suggellare l'alleanza che Dio fà con il suo popolo e regolano il rapporto tra Dio e il popolo e tra l'uomo e il suo prossimo.





Voglio adesso analizzare un testo antico, risalente ad un epoca antecedente ai Faraoni Egiziani, ma che ha continuato a guidare il popolo egiziano fino alla sua scomparsa, il Libro dei Morti.
Questo antico testo risalente al 3500a.c. ha 165 capitoli e parla di riti magici, metafisica e i vari stati dell'anima prima e soprattutto dopo la morte.

Serviva a pronunciare le formule magiche per facilitare il viaggio del morto nell'aldilà.




Quando un Faraone moriva c'era un complesso rito funebre e durante il rito si pronunciava una dichiarazione di innocenza di fronte a Osiride:•Non ho detto il falso
•Non ho commesso razzie
•Non ho rubato
•Non ho ucciso uomini
•Non ho commesso slealtà
•Non ho sottratto le offerte al dio
•Non ho detto bugie
•Non ho sottratto cibo
•Non ho disonorato la mia reputazione
•Non ho commesso trasgressioni
•Non ho ucciso tori sacri
•Non ho commesso spergiuro
•Non ho rubato il pane
•Non ho origliato
•Non ho parlato male di altri
•Non ho litigato se non per cose giuste
•Non ho commesso atti omosessuali
•Non ho avuto comportamenti riprovevoli
•Non ho spaventato nessuno
•Non ho ceduto al'ira
•Non sono stato sordo alle parole di verità
•Non ho arrecato dirturbo
•Non ho compiuto inganni
•Non ho avuto una condotta cattiva
•Non mi sono accoppiato (con un ragazzo)
•Non sono stato negligente
•Non sono stato litigioso
•Non sono stato esageratamente attivo
•Non sono stato impaziente
•Non ho commesso affronti contro l'immagine di un dio
•Non ho mancato alla mia parola
•Non ho commesso cose malvagie
•Non ho avuto visioni di demoni
•Non ho congiurato contro il re
•Non ho proceduto a stento nell'acqua
•Non ho alzato la voce
•Non ho ingiuriato dio
•Non ho avuto dei privilegi a mio vantaggio
•Non sono ricco se non grazie a ciò che mi appartiene
•Non ho bestemmiato il nome del dio della città .

Inoltre possiamo vedere altre analogie nel capitolo CXXV (125) che tratta del "testo per entrare nella Sala delle Verità e giustizia e per separare la persona dai peccati commessi e per vedere il volto degli dei."






O tu dai larghi passi che appari a Heliopolis! Io non ho fatto il male! O tu che guardi indietro, che appari nel Ro-stau! Io non ho ucciso! O tu dalla faccia indietro, che appari nella caverna! Io non ho commesso atti impuri! O Uammit che appari nel luogo di immolazione! Io non ho commesso adulterio con una donna sposata! O Kenememti che appari in Kemenit! Io non ho bestemmiato! O frantumatore di ossa, che appari in Hetnen-nesut! Io non sono stato mentitore! O tu Narice che appari a Hermopolis! Io non sono stato invidioso! O vento di fuoco che appari a Menfi! Io non ho rubato cibo!




Quale conclusione possiamo trarre da tutto ciò ? teniamo presente che Mosè nacque in Egitto e oltre ad essere un consigliere del Faraone, secondo alcune leggende, ne sposò la sorella.
Mi pare il tutto abbastanza ovvio, i Dieci Comandamenti, che vengono insegnati a tutti, altro non sono che una preghiera appartenente ad un rito funebre degli antichi egizi.

alla prossima...

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